giovedì 19 gennaio 2012

PREFAZIONE ALLA "CIVILTA' CONTADINA"

LUIGI  VOLPE


LA CIVILTA’  CONTADINA
lucana e meridionale ricostruita attraverso
i proverbi e i detti degli Antichi


Mario Adda Editore







A DOMENICO BELLOCCHIO
amante delle tradizioni popolari della sua terra
che ha dedicato una vita alla raccolta dei proverbi
e dei detti di Ferrandina inclusi in questo saggio.



INDICE

      PREMESSA
       LA TRASCRIZIONE DEL DIALETTO
1.      IL MESTIERE DEL CONTADINO
2.      LA GIORNATA DEL CONTADINO
3.      L’ANNATA AGRICOLA
4.      PADRONI E SALARIATI
5.      LA VIGNA L’ORTO IL BOSCO
6.      I SEGNI DEL TEMPO
7.      I FENOMENI METEOROLOGICI
8.      L’ANNO METEOROLOGICO
9.      IL LAVORO LA FATICA L’OZIO
10.  GLI ALTRI MESTIERI
11.   LE BESTIE DA SOMA
12.   IL CANE IL GATTO
13.   LA GALLINA IL MAIALE
14.   IL BUE LA CAPRA LA PECORA
15.   GLI ANIMALI SELVATICI
16.   LA CASA
17.   DENTRO LA CASA
18.   LA CUCINA
19.   A TAVOLA
20.   IL PANE E IL VINO
21.   GLI ALTRI ALIMENTI
22.   LA DIGESTIONE: ULTIMO ATTO
23.   IL CORPO UMANO:  IL CAPO IL SENNO
24.   LA FACCIA LA BOCCA LA PAROLA
25.   LE MANI I PIEDI E LE ALTRE PARTI DEL CORPO
26.   I CINQUE SENSI
27.   LA ROBA
28.   L’USO DELLA ROBA
29.  I PATTI E I CONTI
30.   LA BUONA E LA  MALA  FEMMINA
31.   VERSO IL MATRIMONIO
32.   IL MATRIMONIO
33.   GENITORI E FIGLI
34.   PARENTI AMICI VICINI OSPITI
35.   LA CONCEZIONE DEL MONDO E DELLA VITA
36.   I PARADOSSI DELLA REALTA’ E DELLA VITA
37.   IL BUON SENSO E LA GIUSTA MISURA
38.   IL MALE E IL BENE
39.   LA LEGGE E LA GIUSTIZIA
40.   I GUAI E I  MALANNI DELLA VITA
41.   LA MORTE
42.   DIO PADRONE DEL MONDO
43.   ANGELI DEMONI E SANTI
44.   PRETI  MONACI E SUORE
45.   LA MAGIA
46.   IL DESTINO
47.   LE TRACCE DELLA STORIA
48.   GLI IRRIDUCIBILI
49.   LE FILASTROCCHE
50.  GLI INDOVINELLI





PRESENTAZIONE DEL PROF. D. GIANCANE

  Il nuovo studio di Luigi Volpe sulle tradizioni popolari lucane si pone sulla linea maestra già tracciata da illustri predecessori, da De Martino a Bronzini, da Noviello a Nigro (che è naturalmente dapprima uno straordinario narratore ma poi studioso e ricercatore di storia lucana ed anche di folklore). In effetti la Basilicata fu – non appena Carlo Levi ne scoprì l’arcaicità e il valore antimoderno nella sua accezione negativa e positiva assieme – un luogo di confine fra la civiltà industriale (e poi tecnologica) e il mondo contadino, dove convivevano cioè visioni della realtà immobili nel tempo (e risalenti al Medio Evo, al mondo romano, a quello precristiano, persino ai culti degli antichi popoli che vissero prima dei Romani in quei luoghi) ma in qualche modo già aprentesi alle nuove filosofie, alla nuova economia, ad un diverso rapporto con la terra e con il lavoro.
   Si trattava cioè di un luogo di convivenza fra varie culture storiche e antropologiche, di un tuffo in un passato ormai remoto che i nostri avi hanno vissuto. In tutta Europa, sino all’inizio dell’Ottocento (con diverse scansioni storiche, ovviamente) la civiltà contadina fu diffusa e omologante, almeno sino all’avvento della civiltà industriale. Voglio dire che nel Cinqucecento o Seicento la vita del contadino danese o russo non era poi tanto diversa da quella del contadino pugliese o veneto: vita dura, di stenti, legata fortemente al volgere delle stagioni, con nessun ‘ombrello sociale’, con una medicina empirica e una vita media piuttosto bassa. Masse di diseredati e piccoli gruppi di proprietari terrieri, di benestanti che facevano il bello e cattivo tempo.
   Da questa situazione ferma per millenni emergono tutti quei proverbi popolari che alludono alla fissità dei ruoli sociali, all’abisso fra ricchi e poveri, alla necessità del risparmio, di scegliere una moglie lavoratrice, di pensare al domani sempre incerto.
   La Basilicata diveniva così uno strumento di indagine formidabile, un reperto storico (di una storia altrove trascorsa) e quindi un ‘luogo dell’anima’, in cui scoprire ‘come eravamo’. Le ricerche di Bronzini (ancor più di quelle sul magico di De Martino) fecero conoscere ritualità e costumi, feste popolari (vedi il “maggio” di Accettura) e personaggi carnascialeschi (il personaggio di Rocco). Studi sulla cui scia Franco Novello, organizzatore di molteplici convegni sulla civiltà contadina lucana (il discorso della morte e la morte del discorso; il convegno su Faggella) analizzò la dialettica sempre viva fra letteratura popolare e letteratura colta riportando alla luce soprattutto i canti popolari della Basilicata. Dopo i quali Raffaele Nigro (ed altri ovviamente; basterebbe citare la raccolta di fiabe popolari di Giovanni Caserta), a parte i numerosi e raffinati studi (le accademie, la cultura popolare a Melfi) inventò una narrativa fortemente legata  alla culltura storivo-popolare-antropologica lucana (I fuochi del Basento, La baronessa dell’Olivento), in cui cioè la cultura popolare, profondamente assimilata, diveniva materiale per l’invenzione fantastica, quindi in qualche modo di nuovo rimessa in circolo.
   Su questa linea Luigi Volpe sta conducendo da diversi anni un certosino lavoro di recupero sistematico della cultura popolare lucana, sia quella più specificamente materiale (il cibo, il lavoro), sia quella più filosofica (visioni del mondo, relazioni umane, etica di comunità, educazione dei figli). Lavoro che sinora mancava, perché la maggior parte dei lavori succitati sono di taglio monografico o territorialmente ristretti. Ma una ricerca a tappeto sul folklore lucano non era stato sinora affrontata per la difficoltà dell’operazione che richiede una vasta conoscenza delle diverse aree lucane ed una rara capacità di sintesi.
   Nel presente volume di Luigi Volpe ci si apre invece a ventaglio un mondo, colto nei diversi aspetti della vita quotidiana: un mondo di valori forti e condivisi, ma condivisi erano anche l’impossibilità della trasgressione e la forza dei pregiudizi (aie maie véste na zénghere de mète e puttane de felà?, hai mai visto una zingara mietere e una prostitua filare?), così come l’autorità del padre che non deve essere messa in discussione, pena l’irrisione sociale (a haddene sope u hadde, la gallina sul gallo”). Arcaici modi di pensare e di agire nell’educazione dei figli, che doveva essere spartana (certo si trattava di abituarli alla durezza della vita) e aliena di tenerezza (le fégghie se vasene nzunne, i figli si baciano nel sonno), sfottò sulla sessualità in tarda età (a chetarre nòn sona cchio, la chitarra non suona più) e una religiosità ambivalente, perché da una parte c’è l’assoluta adesione al cristianesimo, dall’altra però c’è una critica persino a Gesù che fa a volte le cose ingiuste e soprattutto i preti sono visti come persone poco raccomandabili (in sostanza predicano bene ma razzolano male).
   Su tutto - scrive e annota Luigi Volpe – domina il destino, anche se solo “chi tiene faccia si marita”. In questo studio ci sono delle chicche assolute, per esempio le calze rosse che doveva indossare in tempi lontani l’ammasciatare (colui che portava l’ambasciata, cioè la richiesta di matrimonio). Perché queste calze rosse? L’interrogativo resta senza risposta, come altre cose il cui significato si perde nella notte dei tempi.
   La ricerca di Luigi Volpe risulta – oltre che scientificamente fondata e condotta - assai gradevole alla lettura, perché l’Autore interviene sovente con commenti, riflessioni, ironie, tenerezze, memorie. Con un che di familiare (spesso riporta ricordi personali) che cattura il lettore in un’atmosfera quasi da romanzo popolare o di racconto memoriale, oltre che di saggio che recupera frasi, parole, gesti che sono quasi del tutto scomparsi.

                    Prof. Daniele Giancane – Ordinario di Letteratura per l’infanzia
                                                              alla Facoltà Scienze dell’educazione
                                                              all’Università di Bari
                                                                            

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