giovedì 19 gennaio 2012

  GLI INDOVINELLI   LUCANI DI ACCETTURA 



50.1 Le cose cuesèlle

   Nei tempi passati, quando ancora non c’era la televisione, spesso, soprattutto nelle lunghe serate d’inverno, le famiglie del vicinato si raccoglievano dopo cena a casa di una di loro e si intrattenevano a parlare del più e del meno, dell’ultimo pettegolezzo del paese, o a riesumare vecchi fatti del passato o vicende di guerra. C’era anche un modo più dotto di intrattenersi, come quello di raccontare ed ascoltare storie o di recitare indovinelli.
   Sì, anche indovinelli, di quelli improvvisati da un buontempone dalla fantasia un po’ sbrigliata, o quelli del repertorio tradizionale, tramandato dagli Antichi. Quasi tutti assai pepati, ispirati alla licenza dei versi fescennini degli antichi italici, con allusioni pesanti. In realtà non sono licenziosi, in quanto la risposta è sempre qualcosa di diverso  da quella che l’ascoltatore improvvisa sul momento.
   Ad Accettura vengono solitamente chiamati cose cuesèlle, in quanto tutti sono contenuti in una formula stereotipata che suona così: Sacce na cosa cuesèlle, tanta fĕne e tanta bèlle; poi si recita l’indovinello composto da un distico a rima baciata, e si termina con l’interrogativo: ccè iè? Riportiamo il primo indovinello per intero, mentre gli altri vengono riportati solo nel testo essenziale.



50.2 Gli indovinelli allusivi

          Sacce na cosa cuesèlle / tanta fĕne   e tanta bèlle.
          Iè llònghe e llésce / a tine mmane quanne pésce.

          Ccè iè?

(so una cosa cosella / tanto fina e tanto bella. / E’ lunga e liscia / la tieni in mano quando fa la pipì. / Cos’è?). L’ascoltatore immediatamente pensa all’organo maschile e, preso dall’imbarazzo, si mostra titubante a dare la risposta. Nel frattempo  interviene il proponente, che sorridendo e con fare sornione dice: “No, non è quella cosa... E’ la bottiglia”.

         Vaie còssa còsse, / cchio vaie e cchio s’engròsse.
 (va lungo la coscia / più va e più s’ingrossa). Anche qui il primo pensiero corre a qualcosa di innominabile. Ma no, è semplicemente il fuso, che viene strofinato sulla coscia per dargli i giri giusti. Più viene strofinato, più giri fa e più s’ingrossa per il filo che vi si raggomitola intorno.

          Špònte u vrachettone / e ièsse u battaglione.
 (apro la cerniera dei pantaloni e viene fuori il battaglione). E’ la pannocchia di granoturco, che, allorquando viene spogliata delle foglie che l’avvolgono, vengono fuori i chicchi del cereale.

          A ‘ccepréuete de Calvidde /  téne le pĕle mbònte a aueccidde.
(l’arciprete di Calvello / tiene i peli sulla punta dell’uccello). Si tratta anche qui della  pannocchia di granoturco avvolta dalle foglie verdi, che ha  alla punta un pennacchio di filamenti marroncini.

          A ‘cceprèuete de Stegghiane / tutt’a nòtte a téne mmane.
(l’arciprete di Stigliano / tutta la notte la tiene in mano). E’ l’anello pastorale.

          Quande a mitte iè bèlla tésa / quanne a live iè ca stézze mbronte.
(quando la metti è bella tesa / quando la togli è con la goccia alla punta). E’ la pasta di spaghetti.

          Nu palme de carna cuerĕde / vaie da iéndre e nnon s’appauĕre.
(un palmo di carne cruda / va dentro e non ha paura). E’ il pugno chiuso della donna che va nella pasta quando impasta il pane).

          Lécche e mberlécche  / sèmbe nguĕle ta fécche.
(lécche e mberlécche / sempre nel di dietro te la ficco). E’ il filo che si mette nella cruna dell’ago.   

          Segnore e villane, ci u téne rotte e ci u téne sane.

 (signore e villane chi lo tiene rotto e chi lo tiene sano). E’ il ditale del sarto.


          Pĕle che ppĕle s’anà accuecchià, /  le cose da notte ama scè fare.
(pelo con pelo si devono unire / le cose della notte dobbiamo andare a fare). Sono le ciglia degli occhi.

          Nnante s’ accòrce / ddréte s’allònghe.
(davanti s’accorcia / dietro si allunga). E’ la strada.

          Ta mètte nguĕle /  e me  dĕce grazzie.
(te la metto sotto il sedere / e mi dici grazie). E’ la sedia.

          Cinte frate  se vanne nguĕle l’ene l’ate.
(cento fratelli se la mettono nel sedere l’un l’altro). Sono gli embrici del tetto.

          U iurne ca vòcca chiose / a nòtte ca vocche apèrte.
(il giorno con la bocca chiusa / la notte con la bocca aperta). Il primo pensiero corre all’organo sessuale femminile. Invece sono le scarpe.

          Gire geranne, vote vetanne / faie codde servézzie e poie ti ripose.
(gira girando, avvita avvitando / fai quel servizio e poi ti riposi). E’ la chiave.

   Il seguente indovinello l’ho appreso da una donna originaria di Rotondella che vive da parecchi anni ad Accettura. Lo riporto in quanto contiene tutti i motivi un po’ spinti degli altri indovinelli.
          Aueze a settane dònna galante, / te l’aggia mètte totta quande.
(alza la sottana donna galante / te la devo mettere tutta quanta). E’ l’iniezione.
  


50.3 Gli altri indovinelli

     I seguenti indovinelli non contengono allusioni a cose proibite.
 
        Papra papre ca vaie che ngase / quaranta déšte e dĕie nase.
(papera papera che va per la casa / quaranta dita e due nasi). E’ la donna incinta.

          Quanne vaie, vaie rerènne, / quanne véne, véne chiangènne.
 (quando va, va ridendo; quando viene, viene piangendo). E’ u tragne, il secchio che con una lunga fune viene buttato giù nel pozzo dal pastore per attingere acqua. Quando va giù, essendo vuoto, emette dei rumori che sembrano scoppi di risate. Quando sale strapieno d’acqua, le gocce abbondanti che cadono da ogni parte dell’orlo sembrano lacrime.

          Iè quante nu hadde / ne pòrte cinte a cavadde.
 (è quanto un gallo, ne porta cento a cavallo). E’ la pianta del cece, che in altezza è quanto un gallo. I suoi cento cavalieri sono  i baccelli maturi.

          Sope nu tempetidde ng’è nu ciavarridde cu cappidde.
(sopra una collinetta c’è un cornutello con il cappello). E’ il fungo.

          Sope nu tempetidde / ng’è na morre de ciavarridde,
          vaie u mercante  / e se l’accarre totte nnante.
(sopra una collinetta c’è un gruppo di cornutelli, / va il mercante e se li porta tutti avanti). E’ lo “scaraturo”, il pettine con le punte strette che serviva nel passato per disinfestare i capelli dai pidocchi.

          Nòn téne vòcche e parle/ nòn téne hamme e camĕne.
(non tiene bocca e parla / non tiene gambe e camina). E’ la lettera.
 
          Quanne vaie vaie ianghe / quanne véne véne rosse.
(quando va va bianco / quando viene viene rosso). E’ il pane.

          Nda végne de mammaranne / ng’è na percedozze tésa tése.
(nella vigna della nonna / c’è una porcellina tesa tesa). E’ la zucca.

          Da iéndre na stadde / nge sò tante cavadde ianghe,
          nge n’è uĕne rosse / ca méne càuece a totte quande.
(dentro una stalla ci sono tanti cavalli bianchi, / ce n’è uno rosso che sferra calci a tutti quanti). I cavalli bianchi sono i denti, il cavallo rosso è la lingua.

          Nòn è ciocce e téne u mmaste / non è voie e téne le còrne.
(non è asino e porta il basto, / non è bue e tiene le corna). E’ la chiocciola.

          Dĕie lecinte, dĕie penginte, / quatte mazzòcle e na šcope.
(due lucenti, due pungenti, / quattro mazzuole e una scopa). E’ il bue, con due occhi luccicanti, due corna pungenti, quattro zampe che sembrano delle mazzuole, e una coda che rassomiglia a una scopa.

          Sò quatte iašcarèdde / stanne vòcche sòtte e nòn se scèttene.
(sono quattro fiaschetti / stanno con la bocca giù e non si versano). Sono le mammelle della mucca.

          Sope na case / ng’è na špòrte de cerase.
(sopra una casa c’è una sporta di ciliege). Sono le stelle.

          Sope na case / ng’è na pèzze de šmalte.
(sopra una casa / c’è un pezzo di smalto). E’ la luna.

          Sòtte u pònte de bèllante / ng’è na rònde vèrgantine.
          U fègghie du rrè nòn già ndevĕne.
(sotto il ponte di Bellante / c’è una ronda vergantina. / Il figlio del re non l’indovina). Il testo è corrotto e poco comprensibile. Si tratta comunque dell’anguilla, che vive nelle pozze d’acqua del torrente sotto il  ponte e che ha la forma di una piccola verga.

          Mbrósteme u metandì / fine ca vaue a metangà.
          Dope metangate / tu retòrne arréte ngase.
(prestami il mutandì / fino a che vado a metangà. / Dopo aver metangato, / te lo riporto di nuovo a casa). Anche questo indovinello contiene termini corrotti o disusati. Si tratta del lievito per impastare il pane che viene prestato e poi restituito.

          L’attane iè de lèuene, la mamme iè de spĕne,
           a fégghie iè na reggĕne.
(il padre è di legno, la madre è di spina / la figlia è una regina). E’ la castagna.

          Sètte e òtto / iè sotte nu cappòtte.
(sette e otto / è sotto un cappotto). E’ l’arancia, con allusione ai vari spicchi.

          Nda nu fasciatĕre / nge sò dice creiatĕre.
(dentro un fasciaturo / ci sono dieci creature). Anche qui è l’arancia.

   Un indovinello l’ho già riportato nel capitolo 10.9, al quale rimando per la risposta:
            Nòn tèngue acque e vĕve acque,
            si tenèsse acque me vevèsse u mire
(non tengo acqua e bevo acqua, se tenessi acqua berrei il vino). Il mulinaio dei tempi passati che usava il flusso d'acqua dei torrenti per far girare i macchinari. 

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